AI SIGG.RI PREFETTI DELLA REPUBBLICA - LORO SEDI
AI SIGG.RI COMMISSARI DEL GOVERNO PER LE PROVINCE AUTONOME DI TRENTO E BOLZANO
AI SIG. PRESIDENTE DELLA REGIONE AUTONOMA VALLE D'AOSTA - AOSTA
e, p.c. AL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI - Direzione generale per gli Italiani all'Estero e le Politiche migratorie - ROMA
ALL'UFFICIO DI GABINETTO DEL MINISTRO - SEDE
ALL'UFFICIO LEGISLATIVO E RELAZIONI PARLAMENTARI - SEDE
AL DIPARTIMENTO PER GLI AFFARI INTERNI E TERRITORIALI - SEDE
AL DIPARTIMENTO DELLA PUBBLICA SICUREZZA - SEDE
1- Considerazioni introduttive.
Nel quadro delle misure organizzative e funzionali volte ad una semplificazione dei processi amministrativi, questo Dipartimento ha richiesto al Consiglio di Stato un parere in materia di attribuzione delle generalità ai cittadini stranieri nell'ambito dei procedimenti di concessione della cittadinanza.
E' noto il fatto che il preambolo di qualsiasi decreto di conferimento della cittadinanza italiana identifica l'interessato con le generalità che gli sono state attribuite nel Paese di cui é originario, desunte dall'atto di nascita.
Il dispositivo, viceversa, attribuisce al medesimo il primo "prenome" indicato nell'atto di nascita e il cognome del ramo paterno.
Quanto sopra in applicazione della normativa nazionale, che rinviene le sue fonti nelCodice civile e nel regolamento di stato civile D.P.R. 396 del 2000 e nelle disposizioni di cui alla legge 31/05/1985 n. 218 , recante "Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato", con la quale sono stati recepiti i principi contenuti in materia nella convenzione di Monaco del 5/09/1980 , ratificata con legge n. 950 del 19.11.1984 , che all' art. 1, comma 1 , ha stabilito: "i nomi e i cognomi di una persona vengono determinati dalla legge dello Stato di cui e cittadino".
Sempre più numerosi, tuttavia, sono i casi di neocittadini italiani i quali, una volta entrati nella titolarità del nuovo status civitatis, attivano il procedimento amministrativo per modificare il proprio nome, riallineandolo a quello indicato nel preambolo del decreto di conferimento; tutto ciò determinando un notevole aggravio dei procedimenti amministrativi in materia.
La distonia ordinamentale, in definitiva, nasce dal fatto che, all'atto della redazione del decreto di cittadinanza, il soggetto interessato non é ancora considerato cittadino italiano, dovendo il provvedimento essere ancora firmato dal Presidente della Repubblica e notificato al soggetto medesimo il quale, solo a questo punto, potrà giurare e divenire a tutti gli effetti cittadino.
Tale modus operandi si basava finora su una rigorosa interpretazione dell' art. 15 della legge 5 febbraio 1992 n. 91 secondo cui: "L'acquisto o il riacquisto della cittadinanza ha effetto, salvo quanto stabilito dall'articolo 13, comma 3, dai giorno successivo a quello in cui sono adempiute le condizioni e le formalità richieste".
La normativa sul cambio del nome, viceversa, é stata pensata e scritta per chi é già cittadino italiano.
Di qui il doppio passaggio:
1) procedimento della cittadinanza e redazione del relativo decreto di conferimento secondo la normativa nazionale applicabile in quel momento;
2) eventuale procedimento successivo di cambio del proprio nome.
Peraltro é noto che, con riferimento al punto 2), a seguito del D.P.R. n. 54 del 13 marzo 2012 , concernente il "Regolamento recante modifica delle disposizioni in materia di stato civile relativamente alla disciplina del nome e del cognome prevista dal titolo X dei decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 ", pubblicato nella Gazzetta ufficiale il10 maggio 2012 (G.U. n. 108), il Prefetto é stato individuato quale unica autorità decisionale in materia, con la conseguenza che le sempre più frequenti istanze di cambiamento del cognome avanzate da neo cittadini italiani sono destinate sempre di più a determinare aggravi procedimentali presso le Prefetture e gli Uffici comunali d'Anagrafe e Stato civile.
2 - Soluzione ipotizzata dal Dipartimento per le Libertà civili e l'Immigrazione
Questo Dipartimento. nella citata richiesta di parere ha, fra l'altro, proposto al Consiglio di Stato la soluzione di non applicare la normativa vigente per contrasto con i principi dell'ordinamento comunitario.
Fino ad oggi, infatti, la doppia fase di definizione del decreto di concessione della cittadinanza e di modifica delle proprie generalità anagrafiche veniva giustificata sulla base della legge 19 novembre 1984, n. 950 recante "Ratifica ed esecuzione della convenzione relativa al rilascio di un certificato matrimoniale e della convenzione sulla legge applicabile ai cognomi e ai nomi, adottate a Monaco il 5 settembre 1980 ".
In particolare l'art. 1 della Convenzione sulla legge da applicare ai cognomi e nomi stabilisce che "i cognomi e i nomi di una persona vengono determinati dalla legge dello stato di cui e cittadino. A questo solo scopo, le situazioni da cui dipendono i cognomi e i nomi vengono valutate secondo la legge di detto Stato. In caso di cambiamento di nazionalità, viene applicata la legge dello Stato della nuova nazionalità".
Tale normativa, tuttavia, é parsa in contrasto con i principi comunitari connessi alla cittadinanza europea, ovvero al divieto di discriminazione effettuata in base alla nazionalità e alla libertà di circolazione di cui agli artt. 18, 20 e 21 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (ex articoli 12, 17 e 18 del TCE).
Queste disposizioni, infatti, sono sembrate a questo Dipartimento, anche sulla scorta di quanto osservato dalla Corte di Giustizia della UE, offrire una tutela rinforzata, rispetto agli ordinamenti nazionali, ai diritti della personalità, fra i quali certamente va ascritto quello al nome e alla propria identità.
In altri termini, il diritto al nome, come interpretato in ambito comunitario, consentirebbe, per il caso qui in esame, di conservare il proprio prenome e cognome di origine a prescindere dalle leggi dello Stato dell'Unione europea ove la persona decidesse di stabilirsi acquisendone la relativa cittadinanza.
A supporto di questa tesi, sono state segnalate ai giudici di Palazzo Spada due sentenze comunitarie.
La prima é la C- 353/06 del 14.10.2006, secondo cui: "il fatto di essere obbligati a portare, nello Stato membro di cui si e cittadini, un cognome differente da quello già attribuito e registrato nello Stato membro di nascita e di residenza è idoneo ad ostacolare l'esercizio del diritto a circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, sancito dall'art. 18 CE".
La seconda pronuncia é, invece, C-148/02 in base alla quale: "...gli artt. 12 CE e 17 CE devono essere interpretati nel senso che ostano al fatto che, in circostanze come quella della causa principale, l'autorità amministrativa di uno Stato membro respinga una domanda di cambiamento del cognome per figli minorenni residenti in questo Stato e in possesso della doppia cittadinanza, dello stesso Stato o di un altro Stato membro, allorché la domanda é volta a far si che i detti figli possano portare il cognome di cui sarebbero titolari in forza del diritto e delta tradizione del secondo Stato membro".
Anche la Corte costituzionale, peraltro, ha dimostrato particolare sensibilità alla tutela del diritto al nome ponendolo in relazione con il principio personalista di cui all' art. 2 della Cost. e giustificando, anche nell'ordinamento nazionale, un graduale e parziale superamento di quel principio di derivazione romanistica che stabilisce il riconoscimento di una prevalenza del cognome paterno su quello materno. Ed infatti, con sentenza n. 1311994, la Consulta ha affermato che il cognome "gode di una distinta tutela nella sua funzione di strumento identificativo della persona e che, in quanto tale, costituisce parte essenziale ed irrinunciabile della personalità" e che l'identità personale costituisce un bene in sé, come diritto di ciascuno a "essere se stesso, inteso come rispetto dell'immagine di partecipe alla vita associata...".
Sulla base delle considerazioni di cui sopra, questo Dipartimento ha dunque evidenziato un contrasto fra la normativa nazionale con i principi comunitari, come interpretati e specificati dalla Corte di Giustizia, in forza dei quale si sarebbe potuta giustificare una "non applicazione" della norma statale (1).
Tale fenomeno si verifica quando quest'ultima entra in contrasto con norme comunitarie che abbiano i caratteri della compiutezza e dell'immediata applicabilità, fatto salvo, nella diversa ipotesi in cui le norme UE non risultino immediatamente applicabili, il controllo di costituzionalità della Consulta (cfr. Corte costituzionale, sent., n. 170 del 1984) sulle leggi e gli atti aventi forza di legge.
Al riguardo, sia la giurisprudenza della Corte costituzionale che quella comunitaria hanno ricondotto al concetto di norme comunitarie compiute e immediatamente applicabili:
- i regolamenti comunitari (cfr. sent. Corte costituzionale 170 del 1984);
- le sentenze della Corte di Giustizia (Corte cost. 389 del 1989; Cass. Civ., S. L_, n. 3841 del 2002 );
- le direttive dotate dei caratteri della compiutezza (Corte di Giustizia, C- 103/88 e C-129/98; Corte costituzionale, n. 64 del 1990 e n. 168 del 1991;
- Cons. Stato, VI, 843 del 1996; Corte di cassazione, S. L. 1271 del 1995 ).
Alla luce di ciò, é stato dunque rilevato un contrasto tra la citata legge 950 del 1984 , nella parte in cui dà esecuzione all'art.1, secondo comma, della Convenzione sulla legge da applicare ai cognomi e nomi, e le sentenze della Corte di Giustizia che riconoscono, rispetto ai nostro diritto nazionale, una più ampia tutela del diritto al nome, con una conseguente "non applicabilità" della normativa italiana.
Non é, tra l'altro sfuggita a questo Dipartimento l'obiezione che, riferendosi la sopra citata giurisprudenza comunitaria in modo specifico ai cittadini degli Stati membri dell'Unione europea, l'ipotesi di soluzione in esame la si sarebbe potuta praticare per i soli comunitari.
Tuttavia, si é ritenuto possibile sostenere che la tutela del diritto al nome, intesa come parte della più ampia tutela della personalità umana e della vita privata di ciascun individuo, sia assicurata dall'ordinamento comunitario a tutte le persone siano esse o meno cittadini comunitari. Ciò in forza di disposizioni normative contemplate dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (art. 8 (2)) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 1 e 3 (3)), le quali espressamente utilizzano i termini "individuo" e "persona" e non quello di "cittadino comunitario", in armonia peraltro con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948.
Si è in definitiva, profilata al Consiglio di Stato l'ipotesi che l'interessato, all'atto della presentazione dell'istanza (4), possa indicare gli elementi del proprio nome, nellambito delle generalità così come specificate nell'atto di nascita del Paese di origine, senza più, una volta divenuto cittadino italiano, attivare il procedimento di modifica del proprio prenome o cognome o di entrambi.
3 - Il Parere del Consiglio di Stato.
In Consiglio di Stato, con parere n. 850 del 22 febbraio 2013, ha sostanzialmente accolto la soluzione esegetica proposta da questo Dipartimento, che consente di ritenere "non applicabile" la normativa nazionale relativa all'attribuzione delle generalità ai neo cittadini italiani, in quanto in contrasto con la normativa internazionale alla luce dei principi comunitari.
Per i giudici di Palazzo Spada, sia nell'ordinamento nazionale che in quello comunitario é rinvenibile un diritto assoluto e costituzionalmente tutelato al nome nella sua globalità, in quanto espressione dell'identità personale di ciascuno.
In questo senso si sono espressi da tempo la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione.
Secondo la Consulta, infatti, il cognome gode di una distinta tutela nella sua funzione di strumento identificativo della persona e, in quanto tale, costituisce parte essenziale ed irrinunciabile della personalità. La tutela del cognome e, in definitiva, funzionale alla tutela dell'identità personale, la quale costituisce un bene in sé, come diritto di ciascuno a essere se stesso, inteso come rispetto dell'immagine di partecipe alla vita associata (sentenza n. 13/1994).
Ad adiuvandum, anche l'Organo giurisdizionale della Nomofilachia ha affermato che "é dato ormai incontrovertibile che il cognome nel nostro ordinamento giuridico non svolge solo una funzione pubblicistica, tesa a offrire una tutela della famiglia consentendo ai suoi membri di essere identificati come appartenenti a un determinato nucleo familiare, ma assolve anche a una fondamentale funzione di natura privatistica, quale strumento identificativo della persona. La protezione dell'identità personale, immancabilmente contraddistinta da peculiari connotati morali, culturali, ideologici, trova, infatti, il suo nucleo centrale nella tutela dei nome, che viene considerato non tanto come mezzo necessario di individuazione dei singolo nell'ambito dei soggetti di un ordinamento giuridico secondo principi normativi di interesse generale, quanto piuttosto nella sua corrente qualità di simbolo emblematico della identità personale di un individuo e quindi come aspetto, meritevole di protezione, della personalità umana" (Corte di Cassazione, I sezione, con sentenza n. 12641 del 2006).
Peraltro, i principi comunitari connessi alla cittadinanza europea, al divieto di discriminazione effettuata in base alla nazionalità e alla libertà di circolazione di cui agli artt. 18, 20 e 21 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (ex articoli 12, 17 e 18 del TCE) sembrano, ad avviso del Consiglio di Stato, effettivamente deporre nel senso che la normativa italiana sull'attribuzione del nome allo straniero che acquisiti la cittadinanza dello Stato sia illegittima.
In base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE il diritto al nome consentirebbe di conservare il proprio prenome e cognome di origine a prescindere dalle leggi dello Stato dell'Unione europea ove la persona decidesse di stabilirsi acquisendone la relativa cittadinanza.
Il diritto al nome é, peraltro tutelato anche in via diretta dalla Carta di Nizza , oramai entrata a pieno titolo nel diritto primario dell'Unione Europea, in forza della nuova formulazione dell'art. 6 del Trattato UE. Segnatamente l'art. 7 stabilisce che "Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, dei proprio domicilio e delle sue comunicazioni". Tale disposizione, analoga a quella contenuta nell'art. 8 CEDU, deve essere interpretata in conformità alla stessa, ai sensi dell'art. 52, comma 3 della Carta, secondo cui "laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e della libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione concede una protezione più estesa". Ne discende che, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'uomo in ordine al citato art. 8, la tutela della vita privata e familiare comprende il diritto al nome, in quanto coessenziale all'identificazione della dimensione personale del singolo.
Non vi é dubbio, prosegue il parere n. 850 del 2013, che una normativa che subordini, al momento dell'acquisto della cittadinanza in uno Stato membro dell'Unione Europea, il riconoscimento dei proprio nome ad una procedura che eccede quella strettamente necessaria per codesto acquisto, caratterizzata altresì da valutazioni discrezionali dell'Autorità pubblica, costituisca una restrizione sproporzionata della libertà di circolazione e una violazione del principio di non discriminazione, nonché una restrizione indebita e non giustificata da motivi di interesse generale di un diritto fondamentale della persona.
Se, sotto il primo profilo, la violazione viene in rilievo solo nei confronti dei cittadini comunitari, fermo restando che negli altri casi si tratta pur sempre di soggetti destinati a diventarlo, sotto il secondo profilo esso opera con riguardo a qualsiasi straniero, poiché il diritto comunitario intende tutelare all'interno dell'Unione Europea il diritto al nome di chiunque vi si trovi.
Orbene, accertato che la normativa italiana contrasta con il diritto comunitario, la prevalenza di quest'ultimo non é automatica, poiché la legge italiana ha origine internazionale pattizia.
Ed é proprio in questo punto del parere che va rinvenuta la chiave di volta dell'intero impianto argomentativo, dovendo il contrasto della normativa italiana essere desunto da un'interpretazione della normativa internazionale alla luce dei principi comunitari applicabili negli ordinamenti degli Stati membri.
In altri termini, la normativa nazionale va "non applicata" non già perché in contrasto con il diritto internazionale e comunitario, bensì perché attuativa di accordi internazionali a loro volta in contrasto con il prevalente ordinamento comunitario, nella parte in cui quest'ultimo assicura, in materia di diritti della personalità, una più ampia tutela.
Ed infatti, osserva il Consiglio di Stato, in ordine al rapporto tra diritto comunitario e gli accordi stipulati dagli Stati membri nella stessa materia, le regole generali sono fissate dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 , all'art. 30:
"1. Salvo quanto disposto dall'art. 103 della Carta delle Nazioni Unite , i diritti e gli obblighi di Stati parti a trattati successivi aventi per oggetto la stessa materia sono determinati in conformità a quanto stabilito nei paragrafi seguenti.
2. Quando un trattato specifica che esso é subordinato a un trattato anteriore o posteriore o che non deve essere considerato come incompatibile con questo altro trattato, le disposizioni di quest'ultimo prevalgono.
3. Quando tutte le parti a un precedente trattato sono anche parti a un trattato posteriore, senza che il trattato anteriore si sia estinto o che la sua applicazione sia stata sospesa in virtù dell'art. 59, il trattato anteriore si applica soltanto nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore.
4. Quando le parti ad un trattato anteriore non sono tutte parti al trattato posteriore:
- nei rapporti fra gli Stati parti ai due trattati la regola applicabile é quella enunciata al paragrafo 3;
- nei rapporti fra uno Stato parte ai due trattati a uno Stato parte ad uno soltanto di essi, il trattato al quale i due Stati sono parti regola i loro diritti e obblighi reciproci.
5. Il paragrafo 4 si applica fatto salvo quanto disposto dall'art. 41, e senza pregiudicare qualsivoglia problema di estinzione o sospensione dell'applicazione di un trattato ai sensi dell'articolo 60 o qualsivoglia questione di responsabilità che possa sorgere per una Stato dalla conclusione o dall'applicazione di un trattato le cui disposizioni siano incompatibili con gli obblighi di cui sia destinatario nei confronti di un altro Stato per effetto di un altro trattato".
L'art. 351 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (ex art. 307 del Trattato CE) stabilisce che:
"1. Le disposizioni del presente trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1 gennaio 1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall'altra.
2. Nella misura in cui tali convenzioni sono incompatibili col presente trattato, lo State o gli Stati membri interessati ricorrono a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità constatate, ove occorra, gli Stati membri si forniranno reciproca assistenza per raggiungere tale scopo, assumendo eventualmente una comune linea di condotta".
Ebbene, se il primo comma di quest'ultimo articolo fa salve le convenzioni internazionali concluse dagli Stati membri prima dell'entrata in vigore del Trattato CE, per cui i diritti e gli obblighi sorti da tali convenzioni restano immodificabili e non subiscono l'influenza del diritto comunitario, il secondo comma prevede, tuttavia, che gli Stati membri devono assumere le necessarie misure per rimuovere le divergenze col diritto comunitario che possano derivare dall'applicazione di tali trattati.
Dalle predette disposizioni si ricava, a contrario, che i trattati internazionali conclusi dagli Stati membri con Paesi terzi successivamente all'entrata in vigore del trattato di Roma devono conformarsi al diritto comunitario, primario e secondario.
La soggezione al diritto comunitario del contenuto delle convenzioni internazionali comporta, quindi, l'obbligo del giudice nazionale e della Pubblica Amministrazione d'interpretare le disposizioni convenzionali in modo conforme al diritto comunitario e, nei casi in cui tale interpretazione conforme non sia possibile, di trarre tutte le conseguenze che derivano dal contrasto tra le nonne dei due ordini, prima fra tutte l'obbligo di disapplicare le norme (interne o di diritto internazionale pattizio) contrastanti con le disposizioni e principi di diritto comunitario, primario o secondario, che abbiano diretta applicabilità.
Alla luce di tali considerazioni, appare, quindi, corretto procedere alla non applicazione dell' art. 1, ultimo periodo, della legge 9 novembre 1984, n. 950 , secondo cui "In caso di cambiamento di nazionalità, viene applicata la legge della Stato della nuova nazionalità", nella parte in cui rinvia a norme in contrasto con i principi comunitari.
Per converso, essendo possibile estrarre da questi ultimi la regola del pieno riconoscimento del nome d'origine dello straniero che acquista la cittadinanza, la Pubblica Amministrazione é tenuta a darvi diretta applicazione, essendo all'uopo utilizzabile lo strumento indicato dal Dipartimento per libertà civili e l'immigrazione, ossia consentire all'interessato, al momento di presentazione dell'istanza, di indicare gli elementi del proprio nome, nell'ambito delle generalità cosi come specificate nell'atto di nascita, disponendo che il dispositivo del decreto di conferimento rechi tali generalità, come attualmente avviene nel preambolo.
4 - Considerazioni conclusive.
Il parere del Consiglio di Stato costituisce, dunque, una pietra miliare nei rapporti tra Stato e neo cittadini, nell'ottica di una decisiva azione di semplificazione amministrativa volta all'attuazione dei principi dell'efficienza, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa.
Tali rapporti fanno perno, in materia di cittadinanza. su un principio dall'elevato valore costituzionale quale quello "personalistico", che la migliore dottrina ricava dall' art. 2 della Costituzione .
Il parere limita, tuttavia e condivisibilmente, la soluzione individuata al rispetto delle regole che, tuttora, governano le modalità di trascrizione delle generalità degli stranieri provenienti da Paesi il cui sistema linguistico, ovvero il proprio alfabeto, contenga segni grafici o lessicali sconosciuti in Italia.
Al riguardo, per quanto attiene i procedimenti sulla cittadinanza riferiti a neo cittadini il cui alfabeto di origine presenta sistemi stranieri che utilizzano caratteri diversi da quello italiani (quali quelli cirillici, giapponesi ecc.), andrà tenuta in debita considerazione il fatto che, in simili casi, le relative generalità continueranno ad essere desunte tanto dalle traduzioni ufficiali in lingua italiana certificate conformi al testo straniero redatto in lingua originale (art. 22, del Titolo V del D.P.R. N. 396/2000 ), quanto dal passaporto nel quale le generalità in lingua madre sono, per evidenti ragioni, traslitterate anche in caratteri latini.
Per quanto invece attiene ai segni grafici o lessicali inesistenti nella lingua italiana, non può che continuarsi a fare riferimento al disposto di cui all'art. 34, concernente "Limiti all'attribuzione del nome", del citato D.P.R. N. 396/2000 - recante "Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento di stato civile , il quale, al secondo comma. considera specificatamente che i nomi stranieri imposti a cittadini italiani, devono essere espressi in lettere dell'alfabeto italiano, fra esse comprese le lettere J, K. X, Y, W e, ove possibile, anche i segni diacritici (segno grafico che modifica un altro segno) propri dell'alfabeto della lingua di origine del nome.
In considerazione di quanto sopra, nella stesura dei provvedimenti in questione, gli Uffici competenti dovranno uniformarsi alle disposizioni impartite in materia con decreto del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione in data 2 febbraio 2009.
Pertanto, i decreti di conferimento della cittadinanza continueranno ad essere redatti sulla base del citato D.M. e della tabella allegata recante le modalità di trascrizione dei caratteri non ricompresi nell'alfabeto latino.
In conclusione, la soluzione, individuata da questo Dipartimento con l'avvallo del Consiglio di Stato, di consentire l'attribuzione del nome di origine già al momento della redazione del decreto di conferimento della cittadinanza, ancorché in una fase antecedente al giuramento, dovrà d'ora in poi essere oggetto di applicazione da parte di tutti gli Uffici competenti, previo adattamento dei segni anomali alle regole vigenti nello Stato italiano.
Di tanto i Sigg.ri Prefetti della Repubblica, i Sigg.ri Commissari del Governo per le Province di Trento e Bolzano e il Sig. Presidente della Regione autonoma della Valle d'Aosta vorranno dare comunicazione ai Sindaci, i quali, a loro Volta, vorranno impartire disposizioni in tal senso agli Uffici d'Anagrafe e di Stato civile.
Eventuali quesiti potranno essere inoltrati alla Direzione centrale per i Diritti civili, la Cittadinanza e le Minoranze di questo Dipartimento, anche a mezzo mail o telefono, ai seguenti recapiti:
- viceprefetto dott. Luigia CONTINI tel. 06 46539846 e-mail: luigia.contini@interno.it
- sig. Paola Daniela PARISI tel. 06 46539924 e-mail: paoladaniela.parisi@interno.it
- sig..Alessandra BRUZICHES tel. 06 46539988 e-mail: alessandra.bruziches@interno.it
(1) L'espressione coniata da Cass. Civ., III, 2 marzo 2005, n. 4466.
(2) che disciplina il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
(3) che garantiscono l'inviolabilità della dignità umana e il rispetto del diritto all'integrità della persona.
(4) cfr. nota 1.
IL CAPO DIPARTIMENTO: Angela Pria